di
Valido Capodarca
UVA
Indispensabile, in ogni casa di contadini, era poi la presenza
dell’uva. Ma chi conosceva le specie di oggi.? Le piante erano quasi sempre
maritate ad alberi di acero campestre, altrimenti chiamato loppio o, in
dialetto, “l’arburu”. Fra un acero e l’altro potevano essere stesi dei fili di
ferro filato per dar modo alle viti di allungare i loro tralci. Per la maggior
parte, l’uva serviva a fare il vino, ma spesso serviva per alimentazione
diretta. Ricordo, presso la casa di Nonno Fefè (Raffaele), che spesso la cena,
alla fine di una dura giornata di lavoro, era una canestrata di uva che le
donne spargevano sulla tavola, e un filone di pane fatto a casa. Qualcuno
tagliava delle fette di pane e la cena era, appunto, pane e uva: tre o quattro chicchi
di uva e un morso al pane, ed era tutta la cena. Chi conosceva le moderne
varietà di uva da tavola? L’Italia, la Regina, il Moscato, ecc. Per la maggior
parte si trattava di una specie che si chiamava “lu vaccù” oppure “lo vàccoro”,
un’uva grossa, con chicchi rotondi, non molto dolce, antipatica perché il
guscio dell’acino si schiacciava lasciandoti con la buccia in bocca che dovevi
ingoiare ugualmente o sputare. Più simpatica era la malvasia, con chicchi
medio-piccoli, che però non aveva l’inconveniente de lu vaccù. Un’altra varietà
si chiamava “pagadebitu”; dicono si chiamasse così perché si raccoglieva per
ultima e il vino con essa prodotta serviva a pagare eventuali debiti contratti
prima. Ricordo, però, che c’erano anche varietà coltivate per “sfizio”, in genere
una pianta per ogni specie, cioè solo da mangiare. Per esempio, una vite
produceva l’”uva tosta”, cosiddetta perché i chicchi rimanevano duri anche se
maturi; un’altra produceva il “ràcino”, un’uva nera dai chicchi duri che
maturavano molto tempo dopo le altre uve, in genere a novembre-dicembre (notare
l’assonanza fra il nome”ràcino” e il francese “raisin” che significa, appunto,
uva.
Un’altra vite dava “l’uva a piccu de gallu”; esiste ancora oggi
e viene chiamata uva cornetta, dai chicchi molto lunghi, simili appunto al
becco di un gallo. Quella però forse più attesa di tutte era la cosiddetta “Uva de Santa Maria”,
perché maturava prima di tutte le altre, in corrispondenza della festa di Santa
Maria, cioè l’Assunzione, il 15 agosto. Anzi essa era talmente precoce che in
qualche posto veniva chiamata “uva luglia”, perché era già possibile farne i
primi assaggi gli ultimi giorni di luglio.
Non so se oggi qualcuno, sentendo nominare l’uva americana,
riuscirebbe a capire di cosa si tratta. Semplice: esiste ancora oggi, ma quasi
ovunque viene chiamata uva fragola.
Non ricordo il nome delle uve bianche normalmente usate per
produrre il vino, ricordo che esse venivano normalmente snobbate da noi
bambini, tanto che mai le avremmo usate per saziare la fame o per il solo
piacere di mangiarle. Ricordo perciò che, quando cominciai a frequentare il
Liceo Classico a Fermo osservai con un certo stupore le stesse uve in vendita,
su apposite cassette, sui banchi dei fruttivendoli, come fossero uve pregiate.
La considerazione personale che ne feci fu: devono stare proprio male, in città,
se ritengono buona anche quest’uva.
Valido
Capodarca
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