PAESAGGIO AGRARIO STORICO
DELLE AREE INTERNE DELL’APPENNINO
Appunti di storia del
territorio ed evoluzione del paesaggio
di Riccardo Conti
associazione terrealte.org
AGOSTO 2003
FOTO R. CONTI
MANDORLI PRESSO IL VELINO, MARSICA
FOTO R. CONTI
CAMPI APERTI PELTUINUM
FOTOR.CONTI
PAESAGGIO AGRARIO STORICO
DELLE AREE INTERNE DELL’APPENNINO
Appunti di storia del
territorio ed evoluzione del paesaggio
di Riccardo Conti
associazione terrealte.org
Come
possono l’agricoltura o l’insediamento umano, le scelte storiche, produttive o
insediative “produrre paesaggio”? Cosa significa “produrre paesaggio” e, correlativamente,
si può ritenere che il paesaggio produca e determini scelte produttive o di
sviluppo, oltre che ,naturalmente, insediative ?
L’agricoltura,
ad esempio, e le attività ad essa
tradizionalmente connesse e collegate offrono strumenti per lo sviluppo
cosiddetto sostenibile (al di là del significato oggi assunto dall’espressione
sviluppo sostenibile: ormai sottoposto ad un vero logoramento semantico).
Già
la progettazione d’interventi basati sulla valorizzazione di “cultivar
autoctone” [1]crea
o può creare un effetto d’annuncio con connessi schieramenti, opposizioni,
polemiche, approvazioni.
In
Appennino queste riflessioni sono già molto avanzate almeno in ambito
accademico, di ricerca o nel settore dello sviluppo agricolo.[2]
L’agricoltura
permette di valorizzare la complessità e la varietà biologica o - come si dice
oggi – la biodiversità, la qualità ambientale, il recupero di un codice
genetico dell’identità dei luoghi, nonché di comprendere i processi di
trasformazione di lungo periodo. Si pensi in questo caso agli studi sulle forme
di proprietà agraria arcaica nella Roma repubblicana, agli studi di Weber,
Wilamowitz, Sereni .[3]
La
riflessione sul progetto del territorio rurale (niente a che vedere con
contenuti e finalità del ruralismo conservatore) può contribuire nel contempo a
stabilire limiti, proporzioni, regole di sviluppo e riordino fondiario e degli
insediamenti urbani. La riflessione sulla qualità della vità, oggi
avanzatissima per via dell’elaborazione
in ambito statistico ed economico di indicatori sintetici della stessa, ci
ricollega alla “psicourbanistica” di Guy Debord.
Ormai
in molte città italiane e nel resto del mondo si parla di nuove opzioni per il
“governo del territorio” come si esprime la nostra novellata e velleitaria
Costituzione [4]:
ad esempio i piani regolatori ad opzione zero, cioè senza più nulla da
costruire, senza consumo di territorio (solo riqualificazione di spazi
degradati, aree dismesse e/o marginali , insediamenti a polvere in funzione di
“ricucitura”).
L’agricoltura
è una prospettiva, anche se non l’unica, per discutere di tutto ciò. In aree
montane ed interne , poi, si accentua la sua già nota plurifunzionalità e ciò
permette di parlare di scelte produttive (qualità, estensivizzazione, sovranità
alimentare, forestazione), di recupero idrogeologico del territorio (sarà
problema sempre più attuale con i cambiamenti di clima in atto), di
riqualificazione di sistemi insediativi diffusi (e questo è tema
particolarmente importante per zone interne dell’Appennino che vivono di e con
il loro territorio dalla fondazione), di servizi integrati con l’ambiente, di
turismo sostenibile, di cultura, ricerca e sperimentazione scientifica, di
formazione e didattica.
Possiamo
dunque confrontare alcune esperienze e pratiche di buon governo maturate in
contesto provinciale, nazionale ed europeo? E se non possiamo farlo qual è il
motivo?
La
rilevante crescita di superficie di area protetta[5] in
Abruzzo e nella Provincia aquilana ha condotto all’interno del perimetro dei
parchi ambienti rurali connotati da risalenti processi di antropizzazione.
Esistono
veri e propri paesaggi agrari storici , sedimentate testimonianze del rapporto
d’interazione e d’integrazione dell’uomo con la natura circostante: è il caso,
ad esempio del cosiddetto “paesaggio a campi aperti” della Piana di Navelli o
dell’Altopiano delle Rocche, ormai recessivo in Italia, perché inscindibilmente
connesso alle forme di sfruttamento agrario e alle scelte produttive risalenti,
in qualche caso alle popolazioni SAFIN[6](per
le quali forse si trattava di forme di sfruttamento comune della terra,
turnario e/o pascolivo) oppure al
“saltus” latino o al “pagus” e giunto attraverso l’ “ager
publicus” o “adsignatus” e attraverso il latifondo fino alla rivoluzione
francese.
A
volte, questi paesaggi agrari storici sono o possono rappresentare la ragione
stessa dell’esistenza dell’area protetta che non è adeguatamente tutelata dai
vincoli paesaggistici previsti dalla legislazione vigente [7]e ciò
al di là della definizione internazionale di area protetta, che prevede anche
aree protette tutelate per ragioni di tutela integrata di natura, cultura e
identità antropologica.
In
sostanza, anche se gli amministratori pubblici locali non sempre mostrano di
comprenderlo, potrebbero essere l’unica ragione per attrarre investimenti e
turismo attraverso il circuito virtuoso
cultura-ambiente-storia-turismo-ricettività-università-agricoltura-allevamento
.-.[8] [9]
Altro
problema, a cui sembra prestare attenzione una minoranza di persone è quello
della protezione delle aree non protette. Se può entro certi limiti
considerarsi acquisita una qualche forma di protezione delle aree protette
(ufficialmente considerate tali dalle norme vigenti) resta tuttavia aperto il
problema di qual è l’autorità titolata ad occuparsi e controllare il “governo
del territorio” nelle aree non protette da alcun vincolo.
Non
ci si riferisce solo e non tanto alle aree contigue alle aree protette che,
come noto, per riverbero, qualche forma di protezione indiretta hanno, ma
proprio ad un paesaggio agrario non protetto in alcun modo che, anche se
recessivo, ancora esiste in Italia.
Il
titolare dell’interesse giuridico a proteggere e tutelare non è lo stesso
chiamato a promuovere.
Che
ruolo può svolgere un Sindaco in tali aree, sottoposto com’è solo ad interessi
ed appetiti locali? Gli interessi diffusi distillati dalla giurisprudenza non
hanno se non limitata capacità di incidere ed essere rappresentati, legati come
sono ad organizzazioni che sempre più (sociologicamente) assomigliano ad istituzioni
e, quindi, hanno perso, se mai hanno avuto, il carattere di alterità e terzietà
necessario a svolgere compiti così impopolari come vietare la costruzione di un
capannone industriale in una piana “storica” o un insediamento di una fabbrica
di tonno in zone montane (casi
storicamente avvenuti molte volte in Italia). [10]. Il
paradigma per comprendere la situazione concreta potrebbe essere il tentativo
di effettuare un accesso a documentazione amministrativa ex l. 241 in assenza di un titolo
di proprietà di un terreno in zona. Ma potrebbe essere interessante anche la
situazione di richiesta di accesso anche in presenza di un titolo di proprietà!
Dunque
conservare ambienti rurali ed agrari come “ambiente naturale”, antropizzato o
meno, significa per questi luoghi speciali salvaguardare testimonianze
tangibili di identità dei luoghi, delle comunità, delle persone singole.
I
processi di rielaborazione e riuso possono impedire la “museificazione” dei
segni della storia evitando l’illusoria strada costituita dalla sola area
parco/area protetta. Se non altro perché possono favorire il presidio umano della aree interne e
montane che è un po’ l’acquisizione piu’ significativa degli ultimi anni . La
prima forma di salvaguardia della biodiversità è la presenza dell’uomo in
montagna.
Vengono
comunemente individuate due forme di paesaggio rurale ed agricolo: i) quella
dell’abbandono[11]
delle aree marginali interne e ii) quella del conflitto tra usi
tradizionali e usi turistici o produttivi che è quella del conflitto tra cosiddetti “insiders” ed “outsiders”. Il
problema maggiore delle aree interne dell’Appennino è il verificarsi di una
terza ipotesi quella iii) dello scambio dei ruoli in cui insiders ed
outsiders si scambiano i ruoli reciproci e i locali, pur non avendo in alcun
modo riflettuto sul loro sviluppo economico di lungo periodo adottano strategie
e convinzioni che vanno contro il loro interesse mediato diretto (quello
immediato diretto ed indiretto, aumentare il reddito individuale, è sempre
tenuto presente).
Mentre
nell’ipotesi i) ed in quella ii) si può intervenire con una pluralità
d’interventi e con la pratica di nuovi paradigmi di sviluppo economicamente,
socialmente ed ecologicamente sostenibile utilizzando tutte le metodiche
sperimentate in ambito Agende 21 locali o altri piani di sviluppo come quelle
che vanno sotto il termine di “formazione della partnership [12]
nell’ipotesi iii) tutto ciò non è possibile e occorre trovare nuovi metodi
d’intervento. Se può essere d’aiuto alla riflessione, in questo contesto si
dovrebbe dedicare attenzione alla nozione utilizzata in antropologia di
“coesione sociale”. Le aree dell’ipotesi iii) sono quelle che studiosi di vari
campi hanno individuato, più come intuizione che con concettualizzazioni
empiricamente provate, come aree a “bassa o assente coesione sociale” , con
presenza pervadente di strutture sociali antiche sopravvissute e trasformatesi
in freno allo sviluppo (ad esempio i vecchi apparati di mediazione politica
ancora in bilico tra feudalesimo e notabilato locale?).[13]
I
paesaggi rurali tradizionali costituiscono, nella loro identità, nella loro
integrità, nel loro contenuto di biodiversità, la trama, l’ordito ed il tessuto
vitale del più ampio paesaggio storico (storico-culturale: cfr.: definizione
Unesco e Icomos) .
I
paesaggi rurali tradizionali sono parte integrante del patrimonio culturale e
demo-etno-antropologico della comunità nazionale ed europea.
In
Italia i paesaggi rurali tradizionali costituiscono una delle principali
ricchezze culturali e riserve di biodiversità delle varie regioni e realtà
locali.
Essi
si accompagnano sovente a pratiche agronomiche e colturali o di allevamento
rispettose dell’ambiente che permettono la conservazione, nel lungo periodo,
delle risorse naturali ed economiche. Mantengono la qualità dei suoli,
impediscono l’erosione, preservano la quantità e la qualità delle acque
sotterranee e l’armonica conservazione del reticolo idrico superficiale. Sono
paesaggio “culturale”.
Ogni
singolo paesaggio rurale tradizionale possiede una specifica e differenziata
organizzazione spaziale con valenze percettive e scenico-visuali che
favoriscono l’identificazione dei gruppi sociali con il territorio e i suoi
insediamenti.
I
paesaggi rurali tradizionali costituiscono una delle principali e più
generalmente riconosciute risorse turistiche per le aree circostanti e quelle
integrate.
Infine
la tutela dei paesaggi rurali tradizionali può essere ottenuta mediante
l’individuazione e la conservazione dei valori agronomici, biologici ed
etnografici di ogni componente e attualizzandone la funzione economica e
culturale, in una visione che superi la mera impostazione ecomuseale.
Di
questi paesaggi restano rari e sempre più minacciati esempi anche in Abruzzo;
essi sono minacciati da forme di agricoltura intensiva, di allevamento
produttivistico (non produttivo), dall’abbandono e, peggio ancora,
dall’urbanizzazione diffusa.
Riteniamo
che il paesaggio agrario e rurale tradizionale di date aree dell’Appennino
costituisca, nella sua integrità, patrimonio culturale comune europeo e come
tale vada tutelato anche in aree non protette con il diretto intervento ed
impegno finanziario dell’Unione Europea e dell’Unesco.
[1] Cioè varietà vegetali già tradizionali dei
luoghi , non importate di recente, anche se non necessariamente endemiche
[2] basti pensare al lavoro svolto negli ultimi
anni dal CEDAS (centro documentazione agricoltura sostenibile) e dall’ARSA in
Abruzzo.
[3] Cfr. per tutti …………………………………..
[4] Cfr.: riforma del titolo V
Cost. , art……
[5] La definizione stessa di area protetta non è
priva di significato: cfr. la classificazione IUCN
[6] Il termine “Safin” (da cui
il latino Sabini) è, credo, oggi
acquisito da cultori di varie discipline come sinonimo di popolazione italica
racchiudente le varie denominazioni
trasmesseci dagli scrittori greci e latini classici. Un ceppo comune dai
Piceni, ai Sabini, agli Osci, agli Umbri, con lievi diversità – dialettali-
nella lingua Osca integrati tra loro attraverso il rito del Ver Sacrum (le
primavere sacre durante le quali i giovani destinati al sacrificio umano (una
forma di controllo demografico-rituale della popolazione) venivano inviati in
nuove zone da conquistare.
[7] La normativa attuale – L.1089/1939 – non è in
grado……
[10] La
stessa storia di alcune organizzazioni ambientaliste nel mondo, non solo in
Italia, appare inestricabilmente legata a gruppi di potere e a realtà
associative industriali, fra le più potenti e pervasive. Ne hanno in qualche
modo espresso uomini, finanziamenti e programmi di normalizzazione comunicativa
–eufemismo per esprimere una vera e propria intossicazione dell’opinione
pubblica attraverso forme di disinformazione -. Tali organizzazioni poi sono
divenute vere e proprie detentrici di monopoli della rappresentanza
dell’ambientalismo attraverso una previsione normativa analoga a quella della
rappresentanza sindacale (organizzazioni più rappresentative sul piano
nazionale?).
[11] a questo è collegata la
riflessione sul ruolo degli usi civici e le proprietà e diritti collettivi nel
Mezzogiorni d’Italia di cui si occupano e malamente solo i giuristi.
Incidentalmente il notariato italiano è l’unico tutore di interessi ambientali
in aree del Meridione. Ma a questo è collegata anche la riflessione
sull’abbandono puro e semplice che ha causato danni e vantaggi in una
prospettiva “ambientalistica”
[12] p.es.: basato su sviluppo
rimanenti o superstiti risorse locali, natura, cultura, di natura indogena,
cioè non imposta dall’alto, con i processi di programmazione bottom-up,
condiviso e gestito direttamente da comunità locali.
[13] Per alcune idee contenute
nel testo sono tributario al convegno internazionale sul paesaggio rurale
storico – Genova 25.6.2002 – cfr.
www.parks.it/federparchi/CS.federparchi/CS-2002-06-1/html
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