LA NOTIZIA DI OGGI
SAREBBE MORTO IL BELLISSIMO OLMO DI CAMPAGNOLA (REGGIO EMILIA)
GIA DA ANNI MINACCIATO DA UN COLEOTTOERO PARASSITA FORSE
DEFINITIVAMENTE SCONFITTO DAL TERREMOTO?
AVEVA PIU' DI TRECENTO ANNI
UN TESTO SULL'OLMO
ESTRATTO DA:
L'olmo: un albero dimenticato
L'olmo campestre (ulmus
minor) è una pianta diffusissima nel territorio emiliano e, nonostante
questo, abbandonata e per tanti versi dimenticata. Il motivo dell'abbandono di
questo albero è soprattutto lagrafiosi, una malattia (fungo
patogeno) che ha decimato gli esemplari adulti a partire dalla prima metà del
'900. Per questo motivo, nonostante qualche eccezione è assai raro che oggi si
utilizzino olmi per nuove piantumazioni.
Nonostante la grafiosi
l'olmo è sopravvissuto e vegeta ancora molto vigorosamente in Emilia Romagna e
in gran parte dell'Italia essendo particolarmente ben adattato al clima e ai
suoli. Lo si ritrova con frequenza ai margini delle strade e in incolti dove
forma siepi e piccoli boschi; tralasciamo allora per un attimo la malattia
fungina per approfondire le virtù di questa pianta.
UN CICLO RIPRODUTTIVO PARTICOLARE
L'olmo fiorisce alla
fine dell'inverno e differenza dalla maggior parte degli alberi forma molto
presto i frutti ancor prima delle foglie (dischetti prima verdi poi marrone
chiaro, tecnicamente detti samare). Questo fa si che i semi maturi possano
germinare già nella stessa primavera con buone probabilità di sopravvivenza per
la nuova pianta.
OLMO E OLMA
L'olmo era un tempo
così diffuso che la nostra lingua lo declinò sia nel genere maschile che in
quello femminile.
- Per
olmo si intendevano le piante sottoposte a potatura annua che formavano
nella campagna i filari su cui fare crescere la vite.
- L'olma
era invece l'albero che cresceva con il portamento più naturale perciò più
aggraziato e slanciato rispetto al tozzo olmo.
È possibile, ma non
l'ho mai verificato, che, come spesso accade, la potatura inibisca la fioritura
e la fruttificazione pertanto il riferimento al genere maschile o femminile
possa dipendere anche dalla più o meno abbondante fruttificazione e produzione
di semi.
La vite e l'olmo
Qualche tempo fa ho
avuto modo di confrontarmi con Luigi, un agricoltore di Reggio Emilia,
abbastanza grande da ricordare in modo diretto la coltivazione tradizionale
della vite.
L'architettura del
territorio era in passato completamente diversa, i vigneti erano collocati in
prati stabili che, a differenza di quanto avviene oggi, venivano utilizzati
anche per produrre foraggio.
Fino a 50 anni fa
infatti il vigneto era cosa totalmente diversa da come lo intendiamo oggi. Le
viti erano coltivate assecondando la loro naturale vocazione di piante
rampicanti, che, in natura, si arrampicano su altri alberi ad alto fusto. Va
ricordato che in passato la vite da uva europea (Vitis vinifera):
- non
veniva innestata;
- non
veniva irrigata;
- non
veniva concimata;
- non
subiva trattamenti antiparassitari.
Probabilmente l'olmo
era molto di più che un semplice "tutore" come invece spesso si legge
nelle descrizioni della viticultura tradizionale. Luigi mi raccontava
anche di come si provò a sostituire l'olmo con altri alberi, ad esempio l'acero
campestre, e come il vigneto crescesse con minore vigore rispetto alla
consociazione con l'olmo. Quella della vite con l'olmo è una simbiosi,
che coinvolge probabilmente l'apparato radicale e funghi simbionti delle radici
delle due piante (micorrizae). Con questa chiave di lettura non è difficile
spiegare come mai un tempo la coltivazione della vite potesse essere così poco
problematica rispetto ad oggi. Negli ultimi anni vi è infatti crescente
consapevolezza del ruolo straordinario delle simbiosi fungine nello sviluppo
delle piante.
IL MATRIMONIO PER ANTONOMASIA
Nonostante
l'agricoltura moderna pare averlo dimenticato, in passato, già dal tempo dei
latini si usava l'immagine della vite con l'olmo come metafora del matrimonio
virtuoso. Si trova, inoltre, la definizione di "vite maritata"
intendendo proprio la coltivazione delle due specie consociate. Sicuramente, in
passato, vi fu già molta consapevolezza dell'importanza dell'olmo rispetto a
considerarlo uno sterile... tutore.
La tecnica di
coltivazione della vite maritata si fa risalire agli Etruschi e, in Emilia, è
rimasta la stessa per più di 2 millenni: l'Arbustum Gallicum non è
affatto diverso da quella che fu la Piantata Reggiana che
ancora oggi è visibile nei pochissimi frammenti sopravvissuti.
Ma se fossimo guidati
solo dal buonsenso nei nostri ragionamenti penseremmo che per una pianta
lianosa e rampicante come la Vite l'habitat migliore è essere
arrampicata ad un grande albero in una siepe o ai margini di un bosco. Una
pianta rampicante da sola è "incompleta". A conferma di questo il
fatto che la vite la si trova spesso inselvatichita in ambienti naturali, in consociazione
soprattutto con pioppi o salici. Nei vigneti, fino a pochi decenni fa, i salici
non mancavano mai e se ne utilizzavano i rami giovani per realizzare legacci.
A PROPOSITO DI RADICI DELL'OLMO
Chiesi, anni fa, ad un
tartufologo se l'olmo potesse essere una pianta simbionte del tartufo. Mi
rispose che anche le radici dell'olmo creano micorrize di tuber ma
non producono corpi fruttiferi (il tartufo, la parte del fungo che mangiamo).
Ho osservato peraltro
come la presenza di olmi inibisca fortemente la crescita di altre piante
presenti nelle vicinanze, ad esempio carpini o noccioli anche se meglio esposti
ed irrigati, con una sorta di processo di allopatia. Piante invece che sembrano
non risentire della vicinanza dell'olmo sono quelle del genere Prunus.
Forse per caso ho osservato della vite crescere spontaneamente arrampicandosi a
un mirabolano (Prunus cerasifera) nei pressi di un vecchio vigneto. A
Lentigione, la patria della celebre prugna zucchella, in epoca storica, per la
vite si utilizzavano proprio gli alberi di prugne zucchelle al posto dell'olmo.
Tra i filari era possibile coltivare anche cereali visto che la potatura
invernale delle viti non si faceva tutti gli anni.
ALTRE VIRTÙ DELL'OLMO
Luigi mi raccontava
come le frasche dell'olmo, i rami più giovani, venivano spesso potati e la
foglia utilizzata per l'alimentazione del bestiame. È noto infatti che le
foglie dell'olmo sono un ottimo integratore per la dieta delle vacche e che
stimolano la produzione di latte. Inoltre i rametti freschi, vista l'elasticità
e la resistente tenacia di questo legno erano ideali per realizzare legacci.
Il legno di olmo è
apprezzato per la sua durezza ed il suo aspetto perciò utilizzato per
realizzare mobili, pavimenti e rivestimenti.
Tra gli altri funghi
che crescono in simbiosi con l'olmo vi è la Morchella esculenta, un
pregiato e caratteristico fungo primaverile.
Frutti e semi
commestibili, come testimoniato su libri e racconti popolari, utilizzabili nelle
insalate (i frutti freschi verdi) o sgranocchiabili come piccole noccioline (i
semi detti pan di maggiolino). per approfondire
Olmi resistenti alla grafiosi
In generale è raro
vedere alberi di olmo che superano gli 8 metri di altezza, mentre è molto
frequente osservare siepi dove l'olmo si è insediato come siepe infestante.
L'età della pianta è infatti uno dei fattori critici di sviluppo della malattia
(grafiosi). Mi è comunque capitato di vedere anche piante di olmo di una certa
età, regolarmente potate (capitozzate) in ottime condizioni di salute.
Piantare Olmi
Riprodurre olmi è una
operazione davvero semplice. I semi germinano con facilità e le piantine crescono
in fretta e diventano ben presto competitive con le erbe infestanti. Le piante
nate da semi solitamente hanno un accrescimento più rapido, non temono la
siccità, e hanno uno sviluppo delle radici migliore.
Ancora più semplice
può essere però clonare l'olmo mediante talee che possono essere anche
interrate direttamente per tanta vitalità presenta questo albero nel nostro
clima. Questa seconda possibilità fa si che possiamo selezionare i migliori
esemplari adulti sperando che la pianta clonata erediti le caratteristiche di
resistenza alla malattia fungina.
L'importanza dei vitigni
autoctoni
Sebbene i vini
emiliani non possono essere considerati al pari di altri presenti in Italia, i
mosti delle nostre uve sono l'ingrediente principale per un prodotto d'eccellenza,
conosciuto in tutto il mondo: l'aceto balsamico tradizionale. Conosciuto
soprattutto come aceto balsamico di Modena affonda però le sue radici sulle
colline di Reggio Emilia, la tradizione vuole infatti che esso fosse prodotto
alla corte di Canossa.
Per tutelare quindi la
qualità di questo prodotto è necessario salvaguardare l'originalità delle
nostre uve e forse sarebbe anche utile provare a ripristinare le tecniche di
coltivazione tradizionale delle viti. I vitigni che servono per la produzione
dell'aceto balsamico sono il Trebbiano ed il Lambrusco.
Vite coltivata con tecniche
tradizionali in Campania
La vite
maritata esiste ancora. In Campania il vitigno Asprigno lo
si trova ancora coltivato in consociazione col pioppo nero formando le così dette
alberate Aversane. Questi filari raggiungono altezze considerevoli visto che i
pioppi sono alti anche oltre 10 metri. Interessantissimo è anche il fatto che
questi stesso vitigni non sono innestati su vite americana in quanto sono le
uniche viti europee ad essere immuni alle infestazioni di fillossera.
Per approfondire l'argomento si consulti il link in fondo alla pagina sulla
vite maritata in Campania, documento a cura dell'Università degli studi di
Napoli Federico II.
In Emilia alternative possibili?
E' triste osservare
come la viticultura sia diventata una pratica agricola che impoverisce il
territorio. La monocultura del vigneto prevede oggi l'uso di fertilizzanti
chimici, antiparassitari, insetticidi e lavorazioni della terra finalizzate
spesso a controllare se non eliminare anche il manto erboso. Distruggendo ogni
forma di biodiversità o quasi. Oggi durante la vendemmia non si vedono più
neppure le api ne le vespe che solitamente ronzavano attorno ai carri. E' una
ipocrisia pensare che questo non si ripercuota anche sulla qualità delle uve
prodotte.
Si potrebbe ripartire
da viti non innestate? Forse sì, su terreni sabbiosi per esempio quelli
golenali del fiume Po attualmente "vocati" alla coltivazione del
pioppo per cartiere o segherie. La fillossera (l'insetto parassita che
distrugge le radici della vite europea) infatti non sopravvive in questo genere
di terreni. I vitigni autoctoni non innestati si potrebbe pertanto maritare al
pioppo come avviene in Campania.
Con spiccata
creatività si può immaginare anche un altra consociazione col pioppo e la vite:
il tartufo bianco pregiato (Tuber magnatum Pico) considerato che le
fasce boschive del Po sono uno dei suoi migliori areali di diffusione e che il
pioppo nero è notoriamente una pianta simbionte di questo preziosissimo fungo.
In questa visione
fantasiosa il vigneto è composto da filari boscosi che alternano pioppi neri,
ontani e tanti altri alberi e arbusti.
I vantaggi della siepe
sarebbero diversi:
- migliora
la qualità del suolo, gli ontani ad esempio grazie a batteri simbionti
delle radici fissano l'azoto atmosferico (e sono già utilizzati nei
pioppeti coltivati);
- il
tessuto fungino (micelio e micorrizae) fornisce acqua e sostanze nutritive
alle piante che senza la simbiosi coi funghi non sarebbero in grado di
assimilare;
- richiama
fauna selvatica, in particolare uccelli che concimano naturalmente con il
loro guano ricco di fosforo;
- crea
protezione dagli insetti parassiti ospitando colonie stabili di predatori
dei parassiti.
Un ambiente di questo
tipo è anche ottimale per l'apicultura.
Oggi è però più
frequente che lungo il Po vengano distrutte tartufaie naturali anziché
piantate. L'agricoltura che si pratica è soprattutto destinata alla produzione
di legna per le cartiere. La sabbia delle golene è invece di interesse
soprattutto per l'attività estrattiva.
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