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ENVIRONMENT AND OLD LANDSCAPE

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venerdì 5 luglio 2013

L'OLMA DI CAMPAGNOLA NOTIZIE DI STAMPA


LA NOTIZIA DI OGGI


SAREBBE MORTO IL BELLISSIMO OLMO DI CAMPAGNOLA (REGGIO EMILIA)
GIA DA ANNI MINACCIATO DA UN COLEOTTOERO PARASSITA FORSE
DEFINITIVAMENTE SCONFITTO DAL TERREMOTO?
AVEVA PIU' DI TRECENTO ANNI





UN TESTO SULL'OLMO


ESTRATTO DA:
L'olmo: un albero dimenticato
L'olmo campestre (ulmus minor) è una pianta diffusissima nel territorio emiliano e, nonostante questo, abbandonata e per tanti versi dimenticata. Il motivo dell'abbandono di questo albero è soprattutto lagrafiosi, una malattia (fungo patogeno) che ha decimato gli esemplari adulti a partire dalla prima metà del '900. Per questo motivo, nonostante qualche eccezione è assai raro che oggi si utilizzino olmi per nuove piantumazioni.
Nonostante la grafiosi l'olmo è sopravvissuto e vegeta ancora molto vigorosamente in Emilia Romagna e in gran parte dell'Italia essendo particolarmente ben adattato al clima e ai suoli. Lo si ritrova con frequenza ai margini delle strade e in incolti dove forma siepi e piccoli boschi; tralasciamo allora per un attimo la malattia fungina per approfondire le virtù di questa pianta.
UN CICLO RIPRODUTTIVO PARTICOLARE
L'olmo fiorisce alla fine dell'inverno e differenza dalla maggior parte degli alberi forma molto presto i frutti ancor prima delle foglie (dischetti prima verdi poi marrone chiaro, tecnicamente detti samare). Questo fa si che i semi maturi possano germinare già nella stessa primavera con buone probabilità di sopravvivenza per la nuova pianta.
OLMO E OLMA
L'olmo era un tempo così diffuso che la nostra lingua lo declinò sia nel genere maschile che in quello femminile.
  • Per olmo si intendevano le piante sottoposte a potatura annua che formavano nella campagna i filari su cui fare crescere la vite.
  • L'olma era invece l'albero che cresceva con il portamento più naturale perciò più aggraziato e slanciato rispetto al tozzo olmo.
È possibile, ma non l'ho mai verificato, che, come spesso accade, la potatura inibisca la fioritura e la fruttificazione pertanto il riferimento al genere maschile o femminile possa dipendere anche dalla più o meno abbondante fruttificazione e produzione di semi.
La vite e l'olmo
Qualche tempo fa ho avuto modo di confrontarmi con Luigi, un agricoltore di Reggio Emilia, abbastanza grande da ricordare in modo diretto la coltivazione tradizionale della vite.
L'architettura del territorio era in passato completamente diversa, i vigneti erano collocati in prati stabili che, a differenza di quanto avviene oggi, venivano utilizzati anche per produrre foraggio.
Fino a 50 anni fa infatti il vigneto era cosa totalmente diversa da come lo intendiamo oggi. Le viti erano coltivate assecondando la loro naturale vocazione di piante rampicanti, che, in natura, si arrampicano su altri alberi ad alto fusto. Va ricordato che in passato la vite da uva europea (Vitis vinifera):
  • non veniva innestata;
  • non veniva irrigata;
  • non veniva concimata;
  • non subiva trattamenti antiparassitari.
Probabilmente l'olmo era molto di più che un semplice "tutore" come invece spesso si legge nelle descrizioni della viticultura tradizionale. Luigi mi raccontava anche di come si provò a sostituire l'olmo con altri alberi, ad esempio l'acero campestre, e come il vigneto crescesse con minore vigore rispetto alla consociazione con l'olmo. Quella della vite con l'olmo è una simbiosi, che coinvolge probabilmente l'apparato radicale e funghi simbionti delle radici delle due piante (micorrizae). Con questa chiave di lettura non è difficile spiegare come mai un tempo la coltivazione della vite potesse essere così poco problematica rispetto ad oggi. Negli ultimi anni vi è infatti crescente consapevolezza del ruolo straordinario delle simbiosi fungine nello sviluppo delle piante.
IL MATRIMONIO PER ANTONOMASIA
Nonostante l'agricoltura moderna pare averlo dimenticato, in passato, già dal tempo dei latini si usava l'immagine della vite con l'olmo come metafora del matrimonio virtuoso. Si trova, inoltre, la definizione di "vite maritata" intendendo proprio la coltivazione delle due specie consociate. Sicuramente, in passato, vi fu già molta consapevolezza dell'importanza dell'olmo rispetto a considerarlo uno sterile... tutore.
La tecnica di coltivazione della vite maritata si fa risalire agli Etruschi e, in Emilia, è rimasta la stessa per più di 2 millenni: l'Arbustum Gallicum non è affatto diverso da quella che fu la Piantata Reggiana che ancora oggi è visibile nei pochissimi frammenti sopravvissuti.
Ma se fossimo guidati solo dal buonsenso nei nostri ragionamenti penseremmo che per una pianta lianosa e rampicante come la Vite l'habitat migliore è essere arrampicata ad un grande albero in una siepe o ai margini di un bosco. Una pianta rampicante da sola è "incompleta". A conferma di questo il fatto che la vite la si trova spesso inselvatichita in ambienti naturali, in consociazione soprattutto con pioppi o salici. Nei vigneti, fino a pochi decenni fa, i salici non mancavano mai e se ne utilizzavano i rami giovani per realizzare legacci.
A PROPOSITO DI RADICI DELL'OLMO
Chiesi, anni fa, ad un tartufologo se l'olmo potesse essere una pianta simbionte del tartufo. Mi rispose che anche le radici dell'olmo creano micorrize di tuber ma non producono corpi fruttiferi (il tartufo, la parte del fungo che mangiamo).
Ho osservato peraltro come la presenza di olmi inibisca fortemente la crescita di altre piante presenti nelle vicinanze, ad esempio carpini o noccioli anche se meglio esposti ed irrigati, con una sorta di processo di allopatia. Piante invece che sembrano non risentire della vicinanza dell'olmo sono quelle del genere Prunus. Forse per caso ho osservato della vite crescere spontaneamente arrampicandosi a un mirabolano (Prunus cerasifera) nei pressi di un vecchio vigneto. A Lentigione, la patria della celebre prugna zucchella, in epoca storica, per la vite si utilizzavano proprio gli alberi di prugne zucchelle al posto dell'olmo. Tra i filari era possibile coltivare anche cereali visto che la potatura invernale delle viti non si faceva tutti gli anni.
ALTRE VIRTÙ DELL'OLMO
Luigi mi raccontava come le frasche dell'olmo, i rami più giovani, venivano spesso potati e la foglia utilizzata per l'alimentazione del bestiame. È noto infatti che le foglie dell'olmo sono un ottimo integratore per la dieta delle vacche e che stimolano la produzione di latte. Inoltre i rametti freschi, vista l'elasticità e la resistente tenacia di questo legno erano ideali per realizzare legacci.
Il legno di olmo è apprezzato per la sua durezza ed il suo aspetto perciò utilizzato per realizzare mobili, pavimenti e rivestimenti.
Tra gli altri funghi che crescono in simbiosi con l'olmo vi è la Morchella esculenta, un pregiato e caratteristico fungo primaverile.
Frutti e semi commestibili, come testimoniato su libri e racconti popolari, utilizzabili nelle insalate (i frutti freschi verdi) o sgranocchiabili come piccole noccioline (i semi detti pan di maggiolino). per approfondire
Olmi resistenti alla grafiosi
In generale è raro vedere alberi di olmo che superano gli 8 metri di altezza, mentre è molto frequente osservare siepi dove l'olmo si è insediato come siepe infestante. L'età della pianta è infatti uno dei fattori critici di sviluppo della malattia (grafiosi). Mi è comunque capitato di vedere anche piante di olmo di una certa età, regolarmente potate (capitozzate) in ottime condizioni di salute.
Piantare Olmi
Riprodurre olmi è una operazione davvero semplice. I semi germinano con facilità e le piantine crescono in fretta e diventano ben presto competitive con le erbe infestanti. Le piante nate da semi solitamente hanno un accrescimento più rapido, non temono la siccità, e hanno uno sviluppo delle radici migliore.
Ancora più semplice può essere però clonare l'olmo mediante talee che possono essere anche interrate direttamente per tanta vitalità presenta questo albero nel nostro clima. Questa seconda possibilità fa si che possiamo selezionare i migliori esemplari adulti sperando che la pianta clonata erediti le caratteristiche di resistenza alla malattia fungina.
L'importanza dei vitigni autoctoni
Sebbene i vini emiliani non possono essere considerati al pari di altri presenti in Italia, i mosti delle nostre uve sono l'ingrediente principale per un prodotto d'eccellenza, conosciuto in tutto il mondo: l'aceto balsamico tradizionale. Conosciuto soprattutto come aceto balsamico di Modena affonda però le sue radici sulle colline di Reggio Emilia, la tradizione vuole infatti che esso fosse prodotto alla corte di Canossa.
Per tutelare quindi la qualità di questo prodotto è necessario salvaguardare l'originalità delle nostre uve e forse sarebbe anche utile provare a ripristinare le tecniche di coltivazione tradizionale delle viti. I vitigni che servono per la produzione dell'aceto balsamico sono il Trebbiano ed il Lambrusco.
Vite coltivata con tecniche tradizionali in Campania
La vite maritata esiste ancora. In Campania il vitigno Asprigno lo si trova ancora coltivato in consociazione col pioppo nero formando le così dette alberate Aversane. Questi filari raggiungono altezze considerevoli visto che i pioppi sono alti anche oltre 10 metri. Interessantissimo è anche il fatto che questi stesso vitigni non sono innestati su vite americana in quanto sono le uniche viti europee ad essere immuni alle infestazioni di fillossera.
Per approfondire l'argomento si consulti il link in fondo alla pagina sulla vite maritata in Campania, documento a cura dell'Università degli studi di Napoli Federico II.

In Emilia alternative possibili?
E' triste osservare come la viticultura sia diventata una pratica agricola che impoverisce il territorio. La monocultura del vigneto prevede oggi l'uso di fertilizzanti chimici, antiparassitari, insetticidi e lavorazioni della terra finalizzate spesso a controllare se non eliminare anche il manto erboso. Distruggendo ogni forma di biodiversità o quasi. Oggi durante la vendemmia non si vedono più neppure le api ne le vespe che solitamente ronzavano attorno ai carri. E' una ipocrisia pensare che questo non si ripercuota anche sulla qualità delle uve prodotte.
Si potrebbe ripartire da viti non innestate? Forse sì, su terreni sabbiosi per esempio quelli golenali del fiume Po attualmente "vocati" alla coltivazione del pioppo per cartiere o segherie. La fillossera (l'insetto parassita che distrugge le radici della vite europea) infatti non sopravvive in questo genere di terreni. I vitigni autoctoni non innestati si potrebbe pertanto maritare al pioppo come avviene in Campania.
Con spiccata creatività si può immaginare anche un altra consociazione col pioppo e la vite: il tartufo bianco pregiato (Tuber magnatum Pico) considerato che le fasce boschive del Po sono uno dei suoi migliori areali di diffusione e che il pioppo nero è notoriamente una pianta simbionte di questo preziosissimo fungo.
In questa visione fantasiosa il vigneto è composto da filari boscosi che alternano pioppi neri, ontani e tanti altri alberi e arbusti.
I vantaggi della siepe sarebbero diversi:
  • migliora la qualità del suolo, gli ontani ad esempio grazie a batteri simbionti delle radici fissano l'azoto atmosferico (e sono già utilizzati nei pioppeti coltivati);
  • il tessuto fungino (micelio e micorrizae) fornisce acqua e sostanze nutritive alle piante che senza la simbiosi coi funghi non sarebbero in grado di assimilare;
  • richiama fauna selvatica, in particolare uccelli che concimano naturalmente con il loro guano ricco di fosforo;
  • crea protezione dagli insetti parassiti ospitando colonie stabili di predatori dei parassiti.
Un ambiente di questo tipo è anche ottimale per l'apicultura.

Oggi è però più frequente che lungo il Po vengano distrutte tartufaie naturali anziché piantate. L'agricoltura che si pratica è soprattutto destinata alla produzione di legna per le cartiere. La sabbia delle golene è invece di interesse soprattutto per l'attività estrattiva.


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