RICEVIAMO E RIPUBBLICHIAMO UNA BELLLISSIMA INTERVISTA
INTERVISTA A PEPPE DI
NUNZIO
Dagli scontri con i
bracconieri alle prime foto dell’orso marsicano, dialogo a tutto tondo con
Peppe Di Nunzio, memoria storica del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.
Il racconto di una passione che interpella l’uomo e la sua armonia col mondo.
di Giacomo D’Alessandro
Incontriamo Peppe al Centro
Anziani di Villetta Barrea, nel cuore del Parco d’Abruzzo, un pomeriggio di
fine settembre decisamente piovigginoso. Un altro autunno è cominciato, e da
queste parti ci vuole una dura corteccia per resistere fino a primavera. Con i
suoi 88 anni, il guardiaparco in pensione si alza dal gioco delle carte e ci
invita a sederci all’aperto per la nostra conversazione. Da dove partiamo? mi
chiede. Partiamo dall’inizio, dice piano senza aspettare risposta.
Il parco nasce nel 1923, ma
sotto il Fascismo fu di fatto chiuso… e dopo?
Fino alla fine degli anni
Cinquanta fu sotto il controllo della Milizia Nazionale Forestale. Il primo
gennaio del 1954 entrammo in otto a servizio come guardie, affiancandone tre
già presenti. Potevamo dividerci in cinque pattuglie di vigilanza. Al tempo non
c’era alcun archivio di documenti o di fotografie, cominciammo a fare
formazione con alcuni studiosi che venivano da fuori; io ero stato pastore, ne
sapevo di montagna, ma le competenze giuridiche e legali mi mancavano.
Ufficialmente eravamo guardie giurate speciali, con ben poca autorità e
giurisdizione.
Il problema dei bracconieri
era forte?
Il bracconaggio c’era. Una
sera facemmo un appostamento per fotografare l’orso, sentimmo uno sparo da
caccia verso il Monte Petroso. Sapevamo già chi era. L’uomo ci vide col
binocolo e si sentì minacciato. Moschetto lui, moschetto noi. In una manciata
di secondi una pallottola fischiò a pochi centimetri da noi, sulle rocce.
Rispondemmo, più che altro per marcare il territorio. Da quel momento chiedemmo
aiuto alle forze dell’ordine, ma non volevano inimicarsi il pericoloso soggetto
in questione. Allora una notte lo aspettammo davanti a casa sua, in una
strettoia da cui doveva per forza passare, per coglierlo in fallo. Quando
spuntò gli saltai addosso per bloccarlo, ma sentii che armava il fucile e urlai
al mio collega che riuscì a metterlo a terra e a tramortirlo. In seguito fu
condannato.
A cos’altro dovevate fare
fronte?
C’erano tagli indiscriminati
di boschi, abusi edilizi che i Comuni concedevano per interesse economico… Ci
salvò un decreto del 1958 sul vincolo paesaggistico. Come guardiaparco
cominciammo ad essere tenuti in considerazione dalla gente, ma anche temuti e
minacciati, con vere rappresaglie sulle nostre famiglie
Com’era lavorare nella natura?
Ci spostavamo a piedi, 8 ore ogni giorno, per fare pattuglia,
ostacolare atti illegali che per la gente erano diventati normali nei decenni
di assenza di protezione. Quando il direttore Saltarelli cominciò a fare
pressioni sui politici, lo fecero fuori. Seguirono 7 anni di commissariamento,
quindi arrivò Tassi, giovanissimo e preparatissimo, non certo uno sprovveduto.
In 30 anni ha creato il Parco, un lavoro straordinario. Come prima cosa assunse
altre 12 guardie. Si lavorava bene, gratificati, io venivo distaccato per conto
mio per fare le fotografie che non esistevano.
E così arriviamo all’Orso…
Facevo il primo tratto al
buio e mi portavo in quota, poi mi fermavo e osservavo. Quella mattina vidi
un’orsa a valle da Forca Resuni. Dovetti scendere, rischiando di perderne la
posizione, ma per fortuna la ritrovai che pascolava in una radura. Stavo
montando la mia attrezzatura a monte di un sasso quando a un certo punto mi
trovo ai piedi gli orsacchiotti, assolutamente ingenui. Io non avevo che la
pistola. La madre comincia a venire verso di me a cercarli, e preso dal panico
non indugio oltre, le scatto la foto. Poi comincio a scalciare e sbraitare per
allontanare i piccoli prima che tocchi a me essere caricato… E mentre se ne
vanno fotografo anche loro. Ci misi dieci minuti buoni a mandarli via: sapevo
che scappando io avrei attirato la carica della madre, restando lì con loro
l’avrei indotta comunque ad attaccarmi come una minaccia ai suoi cuccioli.
Missione compiuta comunque:
le foto c’erano…
Non sai la paura che fossero
venute mosse… non c’era prova alcuna che fossero buone, per cui non lo dissi a
nessuno e mi precipitai dal fotografo. Stetti un giorno intero da lui
insistendo che facesse tutto al meglio e subito. Uscì un capolavoro. Gli dissi
che non me ne andavo finché non me le stampava, e le portai al quartier
generale del Parco. Da quel momento presi a fare tante foto, tra cui quello che
rimane l’unico accoppiamento di orsi. Merito più che altro della tenacia con
cui facevo tutti i pernottamenti all’aperto in alta montagna…
Come ha fatto a riprendere un
accoppiamento senza farsi sentire?
Andò così. La sera del 6
giugno 1986 mi affidarono un giornalista di Milano, un appassionato del genere.
Partimmo verso il Marsicano, ma iniziò a nevicare e non ci fu nulla da fare.
Provammo la sera dopo, e una volta in quota c’erano quasi 30 centimetri di neve
sul sentiero. Ci appostammo, fino a che uscì un orso. Il giornalista non stava
nella pelle, io gli dissi di stare zitto. Capii che eravamo sottovento e che la
bestia ci avrebbe fiutato. Hanno un olfatto finissimo, per questo andavo quasi
sempre da solo, meno che mai con qualcuno che fumava. Mentre ci spostavamo uscì
un altro orso che sembrava ubriaco, seguiva la traccia della femmina. Si
incontrarono, si abbracciarono in effusioni, e noi ne approfittammo per
portarci a cento metri, dove feci due foto durante l’accoppiamento.
Qualche volta però se l’è
vista brutta…
Sì, ad esempio quando per
seguire una traccia di neve insolitamente sporca scendemmo i gradoni di uno
strapiombo, senza corda. In fondo c’era una grotta, e dentro un orsacchiotto
che dormiva. Appena ci affacciammo iniziò a ringhiarci: aveva più paura di noi,
tentava di uscire ma eravamo proprio sull’entrata. Non ci eravamo accorti che
la mamma stava dietro di noi, vicino alla nostra roba. Il suo urlo risuonò in
tutta la valle. Iniziammo a tirarle delle pietre, a urlare anche noi per
allontanarla. Quando finalmente siamo riusciti a toglierci da lì il piccolo è
schizzato fuori e rotolando in discesa come un pupazzo ha raggiunto la madre in
un batter d’occhio.
Un altro signore della
foresta, molto più difficile da sorprendere, è il Lupo.
C’è stato un periodo in cui
su suggerimento degli studiosi creammo i cosiddetti “carnai” per nutrire le
bestie in zona e assicurarci che andassero in letargo nelle vicinanze. Io ero
contrario, in ogni caso feci alcuni appostamenti dove venivano lasciate le
carcasse per cibare gli animali. Mi scavavo una fossetta con la zappa per
nascondermi nel terreno, spuntava solo la testa e la macchina fotografica.
Mentre riprendevo alcuni orsi intenti a mangiare, cominciai a sentire rumori
strani alle mie spalle (chi conosce il bosco se ne accorge subito). Poco dopo
la vidi spuntare: la testa del lupo. Provai a spostarmi ma mi sentì subito, e
lo vidi acquattarsi per avanzare strisciando di soppiatto. Altro che foto, non
feci in tempo a muovermi che balzò via in un attimo.
La gente che vive nel Parco
ha sempre condiviso l’esigenza di tutelarne l’ecosistema?
Combattere con la gente è
stata dura, spesso si trattava dei tuoi stessi parenti. Tieni conto che
all’inizio gli orsi erano più numerosi dei camosci, perché questi ultimi
venivano cacciati dai tedeschi in tempo di guerra, per mangiare. Nel passaggio
dal Fascismo all’autonomia del Parco, la gente ha ritrovato certe possibilità
di vivere il territorio che erano uniche, non ultimo far conoscere il Parco a
livello turistico. Le assunzioni di personale vennero programmate dopo almeno 3
mesi di servizio ausiliario, per selezionare bene la gente del posto, la
qualità, la passione. Soprattutto osservarne il comportamento sul campo, il che
diceva molte cose della persona.
Lei ha prestato servizio dal
1954 al 1991, poi è passato dall’altra parte della barricata, da semplice
abitante del luogo. Cosa è cambiato in questi anni? Di cosa ha bisogno oggi il
Parco d’Abruzzo?
Innanzitutto di meno macchine
e più scarponi, a partire dagli attuali guardiaparco. Per conoscere e
proteggere il territorio bisogna viverlo, il che esige ore ed ore di cammino al
giorno, altrimenti certi posti non li raggiungi. L’altro problema è che gli
orsi gradualmente se ne vanno, in cerca di frutteti e di cibo facile. La nostra
generazione di guardiaparco seminava apposta i prati in alta quota perché
avessero da pascolare, oppure si facevano contratti coi contadini per destinare
una parte del raccolto, o le eccedenze, o le parti danneggiate, ad essere
portate in quota per gli animali del parco. Quante volte siamo andati su per i
sentieri con gli zaini stracolmi di mele o pere…
Inutile dirlo: ci vorrebbero
più risorse dalle istituzioni, sussidi per la gente del posto, compensi per i
danneggiamenti, incentivi al settore alberghiero e turistico… La gente diventa
insofferente se mantenere il parco non porta loro alcun vantaggio. E poi ci
vorrebbe più collaborazione e partecipazione tra tutti i soggetti presenti:
tavole rotonde sulla gestione del parco che coinvolgano tutte le parti, anche
noi anziani che abbiamo dato tutto a questi luoghi. Una buona gestione deve
esigere passione e dedizione a partire dal personale.
L’aneddoto più divertente
della sua lunga esperienza?
E’ sicuramente quello della
comitiva di fotografi romani. Arrivarono in 12 per fare alcune riprese dei
camosci. Io e il mio collega demmo loro appuntamento alle 2 e mezzo del mattino
per salire a piedi. Su 12 se ne presentarono 6. Una volta in marcia, due
abbandonarono scoppiati. Dopo poco, altri due ci dissero di proseguire e si
fermarono a riposare. La loro attrezzatura ce la caricammo noi. Ne arrivarono a
destinazione due. Li aiutammo a sistemare tutto in postazione, quindi facemmo
un lungo giro a tenaglia per spingere i camosci a passare davanti alle
inquadrature, mentre loro riprendevano. Al termine ci ritroviamo sul posto: i
due superstiti si erano addormentati!
Incredibile… li avrete
mangiati vivi.
Eh, lì non ti dico che
arrivammo alle mani ma quasi… Comunque ripetemmo tutta l’operazione e
riuscirono a fare le loro riprese.
Il duro lavoro di portare la
“gente di città” a cogliere le bellezze che per voi erano pane quotidiano.
A dir la verità c’è un
aneddoto ancora migliore. Un giorno portai un collega giovane, appena entrato
in servizio, a fare un appostamento per vedere l’orso. Dopo parecchio cammino
gli dissi: “da questo punto in poi silenzio assoluto”. Arrivammo in cima a una
cresta, mi affacciai e dall’altra parte, poco sotto, vidi tre orsi che
pascolavano tranquilli. Lentamente gli feci cenno di guardare.
Sporse la testa e senza più
riuscire a controllarsi per la gioia gridò, indicandoli col dito: “Uno due e
tre!” In un attimo si erano volatilizzati, e addio foto.
Tutta una vita spesa qui, in
questo modo. Perché l’ha fatto?
Per vivere. Un lavoro, fatto
come Dio comanda. Ho rischiato, ho lasciato tante volte la famiglia, ci ho dato
davvero la vita. Mi sono fatto carico di tutte le rogne, specie giudiziarie, le
accuse, i tribunali, gli allarmi, le crisi, le relazioni, le politiche, la
gestione del territorio… Non è stato facile, ma ho avuto buoni superiori che mi
hanno coperto le spalle. Mi sono trovato bene. E’ quello che ho sentito di
fare. E credo di aver detto tutto.
Intervista realizzata a Villetta Barrea il 29 settembre 2013.
Grazie a Peppe Di Nunzio, sua moglie, Claudio Manco, Stefano Dalla
Vedova e Claudia Cevoli.