MAESTRO DI ANAGNI 1200/1300 - CRIPTA CATTEDRALE -
SAN MAGNO SALVA BAMBINI CADUTO NEL POZZO
MENTRE LA MADRE RACCOGLIEVA FICHI - LA VITE MARITATA AL FICO
IL MAESTRO DI ANAGNI (PRIMO O SECONDO) SAREBBE LO STESSO DEGLI AFFRESCHI DELLA SALA CAPITOLARE DEL CONVENTO DEI SS 4 CORONATI A ROMA
CAPITOLO 9
VITE MARITATA, PAESAGGIO E MITO
SPUNTI E RIFLESSIONI
Riccardo Conti
La
vite, invecchiata sopra l’albero vecchio, cadde insieme con la ruina d’esso
albero,
e fu
per la trista compagnia a mancare insieme con quello.
(Leonardo
da Vinci - Aforismi)
La
vite maritata sembra compendiare in sé un nuovo settore di studi del paesaggio
e delle sistemazioni agricole oltre a proporsi essa stessa come oggetto di
studio. In un paese come il nostro, devastato dal genocidio culturale operato
sul paesaggio, la vite maritata può diventare una nuova narrativa del paesaggio
e dell’ambiente (al pari di altre sistemazioni agricole). Di ciò si accorse il
grande Emilio Sereni nel suo fondamentale saggio sulla Storia del paesaggio
agrario italiano (lettura che non dovrebbe mancare ad alcuno). Riassumendo
decenni di studi e secoli di commenti si può dire che la vite maritata sia un
compendio di storia del paesaggio agrario quando non un mezzo per sconfinare in
molti altri campi della storia, non solo agraria.
FOTO BUISMANN, ANNI '20
Parliamo della vite perché parlare della vite è mettere a fuoco
il fattore della densità culturale del paesaggio dovuta a fenomeni storici,
economici, agronomici, produttivi, tecnologici. I sistemi di allevamento della
vite sono vari (40 per il prof. A. Scienza) ma, semplificativamente, in Italia
e nel Mediterraneo, si sono affermati:
- la vite ad alberello, anche molto bassa di origine forse greca
e poi magnogreca, cioè senza sostegno;
- la vite con sostegno vivo o morto (semplificando i pali);
- nell’ambito di quella con sostegno si è affermata, anche, la
vite maritata ad albero anch’essa antichissima, forse proveniente dall’Asia
Minore e che definiremo, per esemplificare, “etrusca” sulla scorta della
tradizione antichissima e delle fonti concordi e ripetute tralatiziamente.
È da notare tuttavia che gli antichi Greci chiamavano l’Italia
“Enotria” perché in questa terra si utilizzava il sostegno per le viti, e
sembra da studi di linguistica che l’etimologia del termine enotrio attenga ai pali di sostegno non
alla vite.
La vite etrusca, cioè con sostegno vivo, sembra essere
sopravvissuta fino a tempi recenti per molteplici ragioni nelle zone soggette
ad influenza etrusca e reimportata in Italia, secondo alcuni autori, dalle zone
della Francia mediterranea in cui si era affermata (denominandosi arbutus gallicum): una o più viti
maritate a una pianta arborea e i festoni delle viti a collegare le piante
lungo i filari. La vite ad alberello basso, invece, è oggi più rara per
numerose ragioni quali il clima, il terreno, l’umidità.
Dunque, la vite avvinta all’albero (in varie fogge e con diverse
tecniche di cui parlano tutti gli autori) è per la nostra definizione la vite
“maritata”. In Campania, Toscana, Umbria, Marche, Lazio e, stranamente, anche
in Abruzzo ne sopravvivono molte prove: fra tutte le viti maritate
dell’Asprinio di Aversa.
Sono da ricondurre a questa le forme di allevamento a volte
molto alte quali le alberate campane, toscane e della pianura padana. I più
antichi coltivatori avevano osservato che si trattava di una pianta lianosa che
quindi tende ad avviticchiarsi naturalmente e non è da escludersi, forse, che
abbiano imitato la natura. Tutto da stabilire se in origine usassero la vite
selvatica (che vinificavano) o le
prime varietà di Vitis vinifera selezionate
e coltivate. Comunque, la sopravvivenza della vite maritata come relitto
colturale o come recupero costituisce non solo un fenomeno di archeologia del
paesaggio ma anche di archeoagronomia e una vera sfida culturale. La vera
anomalia della vite maritata è non soltanto che è sopravvissuta a secoli di
mutamenti nelle sistemazioni agrarie e testardamente riemerge dal nostro
passato, anche in nuovi impianti in tutta Italia (molte le segnalazioni di case
vinicole e viticultori che ne tentano il recupero), ma anche che,
contrariamente a quanto si pensava ai tempi di Sereni, sia sopravvissuta e
sopravviva anche in zone apparentemente non toccate dalla dominazione etrusca.
Cioè la linea di demarcazione tra zone soggette in antichità ad influenza etrusca
e zone non soggette. Infatti, sulla presenza di viti maritate nella vallata
aquilana-amiternina (di cultura non etrusca) ho condotto una ricerca personale,
interrogando anziani di età veneranda e uno di essi ha confermato senza dubbi
che nei primi anni del secolo scorso era palese la presenza non sporadica di
viti maritate ad alberi. Tale certezza si è rafforzata apprendendo che la
tecnica di allevamento era diffusa anche nel reatino (zona culturalmente
sabina, segnalazione nelle vicinanze del lago di Piediluco negli anni ’50 del
Novecento). Non riuscendo tuttavia a trovare copiose tracce, si deve ricorrere
a tentativi di mappatura prima di dare risposte definitive. Nella “Corografia
dell’Italia “di Attilio Zuccagni-Orlandini edita a Firenze nel 1845 si legge in
un passo riguardante l’Abruzzo aquilano (Abruzzo ulteriore II), alla voce
“Vigne”: “Ordinariamente le
vigne vengono piantate nelle basse valli e sopra le colline: si propagano con
Magliuoli sul cominciare di primavera e si potano corte in febbraio ed in
marzo. Era antica consuetudine tenerle molto basse e distanti tra loro tre
palmi circa: da poco tempo fu introdotto l’acero nel Distretto di Aquila ed il
metodo di far ascendere le viti su quell’albero si è ivi ed altrove diffuso”.
L’autore del primo Ottocento, dunque, sembra propendere per una diffusione
relativamente tarda della vite maritata nella zona. Gli alberi cui si
maritavano le viti erano moltissimi e ancora oggi si trovano il testucchio
(acero campestre, nome regionale toscano), l’olmo, il pioppo,
il gelso, il ciliegio, il platano
(Orazio, platanus caelebs), il bagolaro ma, piu’ frequentemente, il pioppo nero e l’olmo,
raramente il salice bianco (in terreni molto umidi), la
farnia. Varrone (I sec. a.C.) descrivendo l’area di Mediolanum, l’attuale
Milano, dice che le viti, appoggiandosi ad alberi chiamati opuli, facevano
passare i tralci da un albero all’altro. Columella (de Re rustica - Liber de arboribus) accenna agli alberi preferiti: opulus (acero campestre), olmo, frassino,
fico e olivo a sud del Po e anche corniolo, tiglio, carpino e quercia a nord.
Il bolognese Pier de Crescenzi (fine 1300) specifica che “..l’olmo è arbore
noto, il quale può sostenere ogni aere… Questo arbore è ottimo per le vite che
s’ordinano ad arbusto acciò che salghin sopresse”.
Sull’olmo, in particolare si è appuntata l’attenzione di una
studiosa olandese Christine Buiseman grazie alla quale abbiamo oggi
testimonianze fotografiche importantissime sulla vite maritata negli anni ’20
del Novecento.
L’influenza di queste forme di allevamento ha dato luogo a
tradizioni difformi nelle regioni italiane: i Greci razionalizzarono la
produzione viticola nell’Italia meridionale, gli Etruschi in alcune aree della
Campania ed in Toscana, nonché in buona parte dell’Italia centrale; i Romani,
in seguito, nel resto della Penisola. Tale evoluzione consolidatasi nei secoli
ha assecondato le esigenze tecniche ed economiche del viticoltore, si è
confrontata con la variabilità delle condizioni pedoclimatiche della Penisola;
la forma d’allevamento è diventata uno dei modi in cui i viticoltori hanno
modellato viti e paesaggio. Così da nord a sud, si vedono ancora, a volte in
filigrana a volte ancora ben vive, le pergole del territorio alpino, i tendoni
veneti, le spalliere piemontesi, toscane e umbre, le alberate aversane, i
tendoni pugliesi ed abruzzesi, gli alberelli calabresi e siciliani.
La coltivazione della vite, per vie che sono anco
ra oggetto di studio, diventa la
componente fondamentale dell’economia della Magna Grecia e attraverso la
mediazione culturale degli Etruschi, a partire dall’enclave campana (Napoli e
Cuma erano colonie etrusche ) si diffonde in tutta l’Italia centrale (e negli
empori del Mediterraneo, nella Gallia). Il paesaggio agricolo tra il V ed il IV
secolo a.C. deve aver subito profonde trasformazioni: non più solo boschi,
pascoli, campi coltivati o incolti (saltus) ma anche filari di viti e olmi
intervallati da campi lavorati, la viticoltura cosiddetta promiscua, come
apprendiamo dallo stesso Catone nel De
Agricoltura. Il paesaggio viticolo delle regioni meridionali è invece, come
si è detto più simile a quello greco da cui erano partiti i coloni con viti
allevate ad alberello, con potatura corta e sostegno morto, mentre quello delle
regioni etrusche o influenzate dalla cultura etrusca (per esempio la Pianura
Padana) sono caratterizzate da potature lunghe e dai sostegni vivi. Gli
Etruschi, verosimilmente, hanno trasmesso questa forma colturale alle tribù di
Galli padani, i Reti delle Alpi e i Veneti.La trasmissione subì però delle
profonde modificazioni che tenevano conto della preesistente viticoltura
primigenia della Pianura Padana (vitigni e modalità di allevamento), sviluppata
dagli abitanti della Liguri. Della viticoltura cisalpina, come noto, non solo
si hanno numerose testimonianze archeologiche, paleobotaniche, epigrafiche, ma
anche letterarie da parte degli autori classici quali Varrone, Columella,
Virgilio, Plinio il Vecchio, georgici romani vissuti tra il I secolo a.C. e il
I secolo d.C. E’ noto che la produzione di vino in Italia era molto elevata,
veniva esportato al di là delle Alpi e conservato in otri, anfore ed infine,
sembra, botti di legno (i Romani avrebbero appreso, secondo alcuni autori,
l’uso delle botti dai viticoltori della Gallia). Questo modello di viticoltura
non avrebbe subito sostanziali modifiche neppure con l’occupazione romana.
Innumerevoli gli autori che arrivando in Italia dal Nord Europa,
nel ‘700, scoprivano la vite maritata come mezzo di governo del territorio
(utile nelle bonifiche dove la vite soffriva per l’umidità e per la predilezione
degli italiani per la policoltura), lodando l’agricoltura che rendeva la
Penisola un giardino. E’ certo che nel ‘500 il paesaggio
della piantata si estendeva dalla Toscana all’Umbria e alle Marche, dal Lazio
alla Campania, dal Veneto all’Emilia, fino a tutta la Lombardia e al Piemonte.
Secondo alcuni autori la piantata lombarda si differenziava dall’alberata
toscana e umbro-marchigiana per la maggiore larghezza dei campi e per il
carattere stabile assunto dagli elementi che delimitavano i campi regolari: le
capezzagne, le scoline e i fossati. Tuttavia fino a tutto il secolo XVIII le
piantate continuarono ad essere inframmezzate da larghi tratti di seminativi e
terreni incolti, da boschi ed acquitrini. Le bonifiche, la messa a coltura di
nuovi terreni, nonché la diffusione della mezzadria favorirono un’ulteriore
estensione di filari di alberi vitati. Nuove
suggestioni tuttavia alimentano l’interpretazione naturalistica del territorio
in cui è presente la policoltura e la vite maritata o forme di piantata,
suggestioni in passato mai esplorate. Ci riferiamo ad un percorso a ritroso alla ricerca delle ragioni della persistenza
della vite maritata.
Supponiamo che la posizione, la giacitura di una vite, pianta così
importante ora e nell’antichità, non sia stata dettata esclusivamente da
motivazioni agronomiche ed economiche, ma avesse in antico anche una funzione,
per così dire, sacrale, rispondesse, cioè a criteri suggeriti o rinforzati dal
rapporto con la divinità. Se il confine è sacro, non lo posso superare pena la
punizione divina. Se il confine è sacro o, in altra e diversa misura, la pianta
è sacra, non posso svellerla, spiantarla. Allora la pianta gode di protezione
da parte delle leggi degli uomini e da parte delle leggi divine quindi la
protezione è rinforzata.
Facciamo un passo in avanti: se pongo la vite al confine gode di
protezione il confine e gode di protezione la pianta, anche al di fuori di un
bosco sacro o di un recinto sacro ed, in effetti, in effetti molte viti
maritate ancora sussistenti sono poste sul confine.
Cerchiamo conforto, ancora una volta, nelle fonti, una fra le
tante:
“Dioniso scoprì la vite ma, reso folle da era, andò vagando per
l’Egitto e la Siria. In Frigia Rea lo liberò dalla follia e gli insegnò riti
misterici… Dioniso infuse follia in Licurgo, figlio di Driante, re degli Edoni,
che abitano lungo il fiume Strimone in Tracia. Licurgo convinto di colpire un
tralcio di vite percosse con una scure e uccise il proprio figlio Driante, poi
dopo avere reciso le estremità del figlio, tornò in senno.La terra smise di
produrre frutti e il dio vaticinò che essa sarebbe tornata a dare il raccolto
se Licurgo fosse stato giustiziato, cosa che avvenne per volontà di Dioniso.
Morì dilaniato dai cavalli” .
(Apollodoro - biblioteca - libro terzo)
BIBLIOGRAFIA
Raffaele Buono, Gioacchino Vallariello, 2002. La vite maritata in Campania. Delpinoa, n.s. 44: 53-63.
Desplanques Henri, 1969. Campagnes ombriennes, contribution à l'étude des paysages
ruraux en Italie centrale, A. Colin, Paris.
Emilio Sereni, 1961.
Storia del paesaggio agrario.
P. Fuentes-Utrilla, R. A. López-Rodríguez and L.
Gil*. The historical relationship of
elms and vine. Universidad politécnica de Madrid. 28040 Madrid, Spain.Invest
agrar: sist recur for (2004) 13 (1), 7-15.
Per approfondire l’argomento si può consultare il sito http://laboratoriopermanentepaesaggio. blogspot.it
URBISAGLIA ANNI '70 VITI MARITATE
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TACUINUM SANITATIS
VITE MARITATA
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VITI MARITATE
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