RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
INTERESSANTE CONTRIBUTO
DEL DR. CAMERINI
le api di Santa Maria in Cappella a Roma
di ANGELO CAMERINI
Il
complesso di Santa Maria in Cappella è un gioiello di rara bellezza. E non solo
per un apicoltore.
Nascosto
in un angolo di Trastevere vicino all'antico porto di Ripa, sfugge ai grandi flussi
turistici che affollano la città. Io stesso che vivo a Roma da più di
cinquant'anni e che da oltre trenta non perdo occasione per “inseguire” le
immagini delle api e della storia dell'apicoltura non ne sapevo nulla.
Così
la prima domenica di gennaio, quando a Roma i musei statali e comunali sono
aperti e gratuiti, dietro segnalazione della professoressa Colombo Nieddu, che
lo aveva appena visitato, sono andato a cercarlo. “Ci dovrebbero essere delle
api che ti interessano”, mi ha detto. E mi sono precipitato.
Ma
andiamo con ordine. Il nome, Santa Maria in Cappella, non proviene da una
cappella, di cui la chiesa è sprovvista, ma probabilmente da un epigrafe che si
trova all'interno : “Sanctae Mariae Quae Appella...”. Da quella mal
interpretazione il popolo romano ha finito per pronunciare “cappella”. 1)
L'ho
chiamato “ complesso” perchè il posto
comprende tanti ambienti. La piccola chiesa a tre navate divise da colonne di
spoglio, e affiancata da un pregevole campanile in mattoni che contiene la più
antica campana di bronzo in uso a Roma, il tutto fondato ex novo da papa Urbano
II nel 1090.
Il
“Giardino delle delizie”, ideato da Donna Olimpia Pamphilij nel '500, che ha
ancora una grande vasca con pesci rossi e gli agrumi che da lei erano stati
fatti piantare. In origine questo giardino conteneva le vasche dove si
bagnavano Donna Olimpia e i suoi ospiti, e
degradava verso le sponde del Tevere dove lei attraccava con la sua
barca. Con l'arrivo dei Piemontesi che costruirono i muraglioni per bloccare le
frequenti inondazioni questa continuità è stata interrotta.
C'è
poi il museo, che contiene, tra l'altro, una pregevole ricostruzione di un
antico hospitale dei poveri, fondato nel 1857 da Filippo Doria Pamphilji che
incaricò di questo l'architetto Andrea Busiri Vici.
Infine,
in piena continuità con l'Ospedale dei Cronici, separato solo da una porta a
vetri accostata, un ospizio, tuttora attivo, frequentato da anziani, romani ed
extracomunitari.
A
creare il complesso fu la nobildonna
Olimpia Maidalchini. che si fece donare chiesa e terreno dal cognato Innocenzo
X. Con i suoi ricchi matrimoni era diventata la donna più ricca e potente di
Roma, tanto da condizionare la scelta dei futuri Papi. Per questo venne
soprannominata dal popolo romano, con disprezzo, “la Pimpaccia”.
Ma
veniamo alle nostre api. All'ingresso ho chiesto ai due gentilissimi custodi
dov'era il mosaico con le api : “Anche lei è venuto qui per il mosaico? Pensi
che quache giorno fa è venuto qui Vittorio Sgarbi che ha voluto vedere solo quello.
E ha scattato decine di foto. Guardi sul lato destro,dentro la chiesa e lo
troverà”.
Il
micromosaico 2), in effetti, è murato in un angolo, in basso vicino alla porta,
non proprio in una posizione centrale e non è segnalato da alcun cartello.
Anche gli intonaci intorno non sono in buone condizioni. Misura 69 centimetri
di altezza, 41 di larghezza massima, nelle braccia della Croce, e solo 22
centimetri di larghezza alla base.
Il micromosaico di Santa
Maria in Cappella a Trastevere con croce e cinque api
(foto di Angelo Camerini)
Vi
compaiono le api Barberini e la fronda d'ulivo dei Pamphilij. L'opera è
attribuita al Bernini, che l'avrebbe fatta realizzare da Giovan Battista
Calandra in micromosaico (mosaico filato) in occasione del giubileo di Urbano
VIII Barberini, nel 1625, per la basilica di S. Pietro, come
sigillo della porta santa alla chiusura dell'evento. Bernini era nato a Napoli nel 1598, e all'epoca della sua
realizzazione, aveva meno di trent'anni.
Quando Innocenzo
X Pamphilji riaprì la porta santa per il
suo giubileo, nel 1649, ruppe simbolicamente il sigillo (sono ancora visibili
le tracce del martello lungo il profilo del mosaico) e ne fece dono al cardinal
nipote (nipote di donna Olimpia, Francesco Maidalchini), e per questa via il
piccolo mosaico venne riposizionato sullo stipite della porta della chiesa, che
era divenuta la cappella privata dell'adiacente giardino di donna Olimpia in
Trastevere.
Il Bernini era alla sua prima
prova con le api : presto avrebbe proposto al Papa di sostituire con tre api i
tre tafani, antichi simboli araldici della sua famiglia. In origine infatti i
Barberini si chiamavano Tafani da Barberino. 3)
Certo le api, e in
particolare le api regine, simbolo di laboriosità, purezza, capacità di
comando, di orientamento ed abilità nella costruzione dei nidi con celle
esagonali, avrebbero nobilitato lo stemma della famiglia.
Presto grazie ai
Barberini le immagini delle api
progettate dal Bernini avrebbero
“invaso” Roma.
Le ritroveremo nel
Baldacchino dell' altare maggiore di San Pietro (1624-1633), sia nelle
decorazioni in bronzo, fuso saccheggiando il soffitto del Pantheon, che nei
basamenti in marmo delle colonne del baldacchino. Da qui il detto romano “Quod
non fecerunt Barbari fecerunt Barberini.
E poi in tante fontane :
in quella della Barcaccia del 1628, in quella del Tritone del 1643, nella
fontana delle api di via Veneto (1644), e anche, in bronzo e in marmo, sparse
nel monumento sepolcrale di Urbano VIII in Vaticano.
Infine ritroveremo le api regine anche a
Sant'Ivo alla Sapienza, costruita tra il 1642 e il 1660 dal Borromini, eterno
avversario del Bernini: Si immaginano nella stessa pianta della chiesa,
disegnata su due triangoli in parte sovrapposti, negli stucchi con api regine
sopra le finestre, nel pungiglione seghettato che sostiene la lanterna e negli esagoni
delle decorazioni all'interno del cortile che ricordano la struttura delle
cellette delle api.
In quegli anni, le
immagini delle api, a Roma appariranno a decine, e non solo negli stemmi dei
Barberini. Anche nella Galleria delle Carte Geografiche, in Vaticano, ultimata
nel 1583 dal domenicano Ignazio Danti, in seguito verranno aggiunte api d'oro,
sia nelle carte che negli stemmi e nei cartigli dedicatori. Una grande ape
regina appare al centro del Tirreno dell'Italia antiqua, davanti a due
caravelle, come ad indicargli la strada. Ed altre api verranno aggiunte sulle
sponde del Ligustico Mare, anche se l'appellativo di ape ligustica apparirà
solo nell'800.
Ignazio
Danti 4) , nato a Perugia nel 1536 da nobile famiglia di pittori, fu un
matematico, geografo e studioso prolifico ed eclettico. Lavorò dapprima alla
corte di Cosimo de Medici, dove oltre alla costruzione di strumenti scientifici
dipinse le Carte geografiche custodite nel Guardaroba di Palazzo Medici. Sono
queste carte che rappresentano tutto il cosmo (per assonanza con Cosimo), anche
le Americhe da poco scoperte, ed erano accompagnate dal più grande mappamondo
mai costruito sino ad allora, Quindi, in seguito a dissidi con la corte
fiorentina si trasferì a Bologna ad insegnare matematica, e poi fu chiamato a
Roma dal Papa. Qui costruì, tra l'altro, la meridiana della Torre dei venti,
contribuì alla riforma del calendario gregoriano (che fu varato nel 1582 con il
recupero di dieci giorni sul vecchio calendario) e assunse la direzione della
Galleria delle carte geografiche con il fratello Antonio. Insieme dipinsero le quaranta carte delle regioni italiane e le mappe
dei principali porti e città. I Danti curarono in particolare le carte del nord
del Lazio, e si narra che la loro precisione fosse dovuta anche al fatto che
sperimentarono i primi voli planati dalle alture del lago di Bracciano. Proprio
dove oggi si allenano i deltaplanisti. Morì ad Alatri nel 1586 dov'era divenuto
vescovo
Carta dell'Italia Antiqua con numerose
api Targa di
destra dell'Italia Nova con 4 api
Ma torniamo alle api del mosaico di Santa
Maria in Cappella
A ben osservare le cinque
api si rivelano api regine. Grazie alla precisione del lavoro del micromosaico
si può osservare, intanto, che le ali sono più corte dell'addome, quando nelle
api operaie le ali arrivano a coprirlo fino alla fine. Inoltre l'addome termina
a punta e non è rotondo come quello delle operaie. E infine (vedi il sito wiki
how) “mentre le zampe delle operaie e dei fuchi restano sotto il corpo, la
regina mantiene le zampette distese e quindi queste sono molto più visibili”
che nel corpo delle operaie..
In effetti le zampette
visibili sono solo quattro e fuoriescono in avanti, ma questo perchè le ali
allargate, impediscono la visibilità delle zampette laterali. In compenso i
segmenti dell'addome sono sette, proprio come nelle nostre api. Le api infatti
hanno visibili gli altri tre segmenti, per un totale di dieci, solo in posizione ventrale.
Come mai tanta
precisione? Ebbene proprio nel 1625, l'anno della realizzazione del mosaico,
gli studiosi dell'Accademia dei Lincei, guidati da Federico Cesi, fondatore
dell'Orto botanico di Roma, Stelluti e Faber, presentavano al Papa la
Melissografia, un'incisione col trigono delle api, opera dell'incisore Matteo
Gruber. Queste erano state osservate nei minimi particolari grazie all'uso del
microscopio. Era la prima volta al mondo che si facevano osservazioni
scientifiche con “l'occhiolino”, così lo aveva chiamato Galilei, che lo
scienziato pisano aveva sviluppato. Ed era stato proprio Giovanni Faber,
accademico e amico di Galileo a proporre a Stelluti e ai Lincei che la nuova
invenzione fosse battezzata “microscopio”. Pochi anni prima Galilei aveva
iniziato le osservazioni sugli insetti dicendo “ ...la pulce è orribilissima, la zanzara e la
tignola sono bellissimi”. Ma fu ovviamente con l'ape che i Lincei iniziarono il
loro lavoro. Rappresentare il trigono d'api dei Barberini oltre che un omaggio
al Pontefice che le aveva nel proprio stemma di famiglia, permise loro anche di
disegnarle dal dorso, di lato e dal ventre, una ottima soluzione che verrà
ripresa anche con altri soggetti animali. Certo, l'ingrandimento era poca cosa,
cinque a uno, ma non s'era mai visto nulla di simile prima di allora.
Quest'opera,
di difficile lettura, a causa di un latino seicentesco, è stata da poco
interamente pubblicata in rete, con la traduzione in italiano, dall'Accademia
dei Lincei sotto la voce “Apiarium e Melissographia”. Il testo, pubblicato nel
Natale del 1625 con il “superiorum permissu” (in un'epoca in cui Papa Barberini
farà processare Galilei per le teorie che aveva elaborate proprio grazie al
telescopio che aveva portato in dono al pontefice) contiene una grande quantità
di dati.
Alcuni,
come quelli in cui si parla delle api recentemente scoperte nel Nuovo Mondo, di
sicuro valore scientifico. Altri, come
quando si parla di “celle dei re, dei cittadini, della plebe e degli schiavi,
che sono state erette tenendo conto della dignità, dei meriti e dello stesso
lavoro”, sono concetti che tendono solo a riprodurre la vulgata aristotelica.
Ma questa, almeno, non si perdeva in divagazioni pseudoscientifiche e non
cercava di cristallizzare una società divisa in caste nell'interesse dei nobili
lincei e del Papa Re. Comunque se nelle sezioni 28 e 29 ci sono chiaramente
dati derivanti dall'osservazione al microscopio delle parti del corpo dell'ape,
nella sezione 33 si ribadisce che “manca all'ape un organo riproduttivo.
Cinque
anni dopo lo Stelluti, nel pubblicare la traduzione italiana delle satire di Persio
tradotto in verso sciolto e dichiarato, opera in onore di un altro
Barberini, il “Cardinal nepote Francesco”, curerà la produzione di una nuova
tavola che sarà incisa dal Greuter, con le tre api. Intitolata semplicemente
“Descrizione” manca totalmente di decorazioni, cartigli e dedica, pur
mantenendo le tre api nelle diverse posizioni, e contiene nuovi e meglio
visibili particolari, frutto chiaramente della dissezione oltre che
dell'osservazione al microscopio.
In
basso una “legenda” o didascalia in dodici punti.contiene informazioni
interessanti.
Intanto,
è rappresentata un'antenna chiamata “corno” Poi dei peli piumosi chiamati
“penne”. Infine, pur essendo quella riprodotta un'ape con pungiglione, si parla
di “Ape supino” al maschile.
Da
sempre si conoscevano benissimo i fuchi, maschi, ma non era pensabile che l'ape
con pungiglione fosse declinata al femminile. Così come la regina restava il
re, seguendo le indicazioni di Aristotele che, nell'Historia Animalium, nel 350
a.C., parlava di re e di celle reali. In un altro punto le api vengono definite
“femmine in quanto al compito, non per il coito o per il sesso”.
La Melissographia di Cesi (1625)
La Melissographa doveva affiancarsi
all'Apiarium,un foglio di oltre un metro di lato, che doveva far parte del Theatrum Toties Naturae, progettato dal
principe Federico Cesi e dagli altri lincei. E' questa, secondo Giuseppe
Gabrieli, 5)“la prima monografia entomologica che sia stata composta dopo
l'invenzione o modificazione galileiana del microscopio”.
INTERNO ATTUALE DELLO XENODOCHIO
FONTANA CON LE API BARBERINI