GRAZIE AL DOTT. Massimo GARDIMAN
del
Consiglio per la Ricerca e la
sperimentazione in Agricoltura
Centro di ricerca per la Viticoltura
E ALLA DOTT.SSA BETI PIOTTO DELL'ISPRA, PREZIOSA COLLABORATRICE DEL LABORATORIO,
VI PROPONGO ALCUNE IMMAGINI DI VITE MARITATA
Jakob Philipp
Hackert
1737-1807
Jakob Philipp
Hackert
1737-1807
SUL PITTORE HACKERT E I SUOI PAESAGGI DOVREMO TORNARE
E' DA NOTARE COMUNQUE CHE I PAESAGGI DI HACKERT NON SONO SIMBOLICI O ASTRATTI MA RAPPRESENTANO, COME NOTO, PRECISE LOCALITA' E SISTEMAZIONI AGRARIE E PAESAGGISTICHE: LE VITI MARITATE IN CAMPANIA, LAZIO E UN PO' IN TUTTA ITALIA ERANO LA NORMALITA'
E' DA NOTARE COMUNQUE CHE I PAESAGGI DI HACKERT NON SONO SIMBOLICI O ASTRATTI MA RAPPRESENTANO, COME NOTO, PRECISE LOCALITA' E SISTEMAZIONI AGRARIE E PAESAGGISTICHE: LE VITI MARITATE IN CAMPANIA, LAZIO E UN PO' IN TUTTA ITALIA ERANO LA NORMALITA'
FOTO PROVENIENTE DA : dr. GARDIMAN :
LOCALITA' PERGOLA (MARCHE) PU
ESTATE
LA STESSA IN
INVERNO
TESTO
SULLA VITE MARITATA
AUTORE
SCONOSCIUTO
A Soufflot, architetto del
Panthéon parigino che accompagna nel 1750 insieme a Cochin e all’Abbé Le Blanc
il giovane de la Vandière, fratello di Madame Pompadour e futuro Marquis de
Marigny, nel viaggio di formazione in Italia[1], la vite appare così: «governata a
tralcio lungo è tradizionalmente maritata al pioppo, in festoni tesi tra una
pianta e l’altra. I festoni, in cui i tralci sono sistemati a rete – ‘a rezz’ ‘e pecore’,
possono raggiungere gli otto/dieci metri di altezza; nel rigoglio estivo
costituiscono un vero e proprio sistema di quinte verdi dal comportamento
tessile, al di sopra delle quali sono rade le cacciate dei pioppi, potati senza
scrupolo nei mesi invernali per rifornire di combustibile la grande città[2].»
Il paesaggio che appare al
viaggiatore del Settecento è molto simile a ciò che descrive Plinio nella sua
Storia Naturale, quando racconta che «nell’agro campano le viti si maritano al
pioppo; avvinghiate alle piante coniugi e salendo su di esse di ramo in ramo…
ne raggiungono la sommità ad un’altezza tale, che il contratto di chi viene
ingaggiato per la vendemmia prevede (in caso di caduta mortale) il risarcimento
delle spese per il funerale e la sepoltura[3].»
La vigoria della vite, che è
una pianta rampicante, fa suggerire a Plinio l’ancoraggio al pioppo anziché
all’olmo o all’acero, consuetudine questa maggiormente diffusa nel nord Italia
e di cui parla Virgilio nelle Georgiche, il cui scopo, tra gli altri, è quello
di insegnare agli agricoltori «sotto quale stella occorre rivoltare il suolo e
legare agli olmi le viti[4].»
Se per Plinio la vite si àncora meglio al pioppo, soprattutto ai fini della
potatura e della vendemmia, la vera affinità elettiva, per il poeta Ovidio[5],
è quella tra l’olmo e la vite: «Nell’ultima ode del primo libro Orazio
rappresenta se stesso, incoronato di mirto, mentre beve sotto una vite, con uno
schiavetto che gli mesce il vino:‘Persicos
odi, puer, apparatus, displicent nexae philyra coronae, mitte sectari rosa quo
locorum sera moretur. Simplici myrto nihil adlabores sedulus curo: neque te
ministrum dedecet myrtus neque me sub arta vite bibentem.’ È noto
che alle popolazioni italiche la vite era gradita per l’ombra che offriva non
meno che per i suoi frutti, sicché in latino comunemente il sostantivo vitis
sta a significare pergula vitis umbriferae.
Ne è la prova l’ode di Orazio sopra citata, nella quale il poeta presenta la
vite come arta. Questo
aggettivo è stato diversamente interpretato dagli antichi commentatori: infatti
Acrone gli attribuì il significato di humilis, mentre
Porfirione parafrasava ‘artam
vitem spissam ac per hoc umbrosam’. Non diversamente i moderni
commentatori intendono gli uni arta come parva o angusta, gli altri come spissa ovvero densa. Essi tutti non tengono
conto del fatto prima ricordato, ossia che comunemente in latino il sostantivo vitis non indica soltanto la pianta in sé e
per sé, ma anche l’ombra proiettata dalla vite maritata a un albero oppure
sorretta da una pergola. Per questo motivo l’interpretazione vulgata
dell’aggettivo arta nel senso di humilis o parva o angusta non è sostenibile, dato che
nell’ode si tratta evidentemente di un pergolato di vite, o, per meglio dire,
della sua ombra. La vite non si può correttamente definire ‘bassa’, ‘piccola’ o
‘stretta’, poiché il poeta non si riferisce alle dimensioni della pianta, a
alla qualità della sua ombra. Né d’altra parte sembra verosimile che la vite
sia spissa o
densa (‘folta’) in quella stagione dell’anno nella quale, come dice Orazio, rosa
sera moretur, dunque sul finire dell’estate o all’inizio
dell’autunno, quando le fronde della vite sono rade per essere state potate dal
vignaiolo, come insegna Virgilio, ovvero perché cominciano a cadere a causa
della stagione. Ritengo perciò che l’arta
vitis sia
l’ombra del pergolato diradata, ossia artata, ‘ridotta’,
‘ristretta’ defecto palmite,
come dice Petronio in un frammento poetico, verosimilmente estratto dal
Satyricon nel quale sono descritte diffusamente le umbrae,
ossia le chiome della vite o del platano in autunno, sfrondate: ‘Iam nunc †argentes† autumnus
fregerat umbras atque hiemem tepidis spectabat Phoebus habenis, iam platanus
iactare comas, iam coeperat uvas adnumerare suas defecto palmite vitis: ante
oculos stabat quidquid promiserat annus.’ L’immagine
descritta da Petronio ingenti volubilitate
verborum, per usare le sue parole, viene espressa da Orazio, con
mirabile concisione ed eleganza, per mezzo di un unico aggettivo: il poeta
descrive l’aspetto della vite poco prima o poco dopo il tempo della vendemmia,
quando i tralci, sebbene diradati, sono in grado di offrirgli ancora abbastanza
ombra mentre beve[6].»
Così, a seconda delle zone, sia dell’agro campano che del resto del centro-sud
Italia ritroviamo una viticoltura simile sia alla piantata del centro nord che
all’alberata toscana centrale: «Le più celebri sono quelle aversane (dalla
cittadina di Aversa, nel Casertano), che, in questo comprensorio, vengono
impropriamente definite alberate. Sono prevalentemente costituite dal vitigno
Asprinio, discendente dalla Vitis viniferasubsp.
sylvestris, domesticata dagli
Etruschi, sostenute da filari di pioppo. L’altezza media si aggira intorno ai
10 – 15 m; raramente lungo il filare, al posto di alberi vivi si utilizzano
pali di castagno. Questo tipo di coltivazione è attualmente diffuso nell’area
corrispondente alle tre province di Napoli, Benevento e Caserta. In queste
zone, durante la formazione delle alte spalliere e durante i lavori di potatura
secca, i tralci delle viti vengono sistemati in senso verticale in modo da
formare un ventaglio aperto. Nelle piantate del nord Italia, invece, i tralci
vengono posizionati in cordoni paralleli in senso orizzontale lungo i tiranti
presenti ad altezze diverse del filare.(…) Questo paesaggio aversano ha sempre
colpito i viaggiatori del Gran Tour del
Settecento. Scrive W. Goethe nel suo Viaggio in Italia: Finalmente
raggiungemmo la pianura di Capua…. Nel
pomeriggio ci si aprì innanzi una bella campagna tutta in piano…. I pioppi sono
piantati in fila nei campi, e sui rami bene sviluppati si arrampicano le viti….
Le viti sono d’un vigore e d’un’altezza straordinaria, i pampini ondeggiano
come una rete fra pioppo e pioppo. Aubert de Linsolos scrive invece nei suoi
Souvenirs d’Italie: … i rami della vite intrecciati ai grandi alberi all’orlo
della carreggiata, danno l’idea di tanti archi trionfali di verzura, preparati
per il passaggio di un potente monarca. (…) Molto particolare è la situazione
dell’isola d’Ischia. Nelle zone pianeggianti del versante meridionale fino a
una decina di anni fa esistevano bellissime viti maritate a pioppi secolari,
oggi purtroppo quasi del tutto scomparse[7].»
Sono presenti ancora oggi rari esempi di questo tipo di coltivazione nel comune
di Barano (in località Chianole del Testaccio), ove le viti vengono ancora
coltivate alte con spalliere e contro-spalliere e vengono sostenute da tutori
morti costituiti da pali di castagno o da canne. Le zone meridionali della
Campania subiscono l’influsso greco, mentre nelle zone settentrionali è evidente
l’influsso etrusco: «in alcune zone del Cilento la coltivazione della vite
maritata viene ancora oggi praticata ai margini dei campi, lungo i confini o in
prossimità di fossati e canali di scolo delle acque, utilizzando come sostegni
vivi per le viti specie arboree sia spontanee sia coltivate e quasi mai
disposte con sesto di impianto. In queste aree sono molto utilizzati come
tutori olmi, peri e meli selvatici, particolarmente diffusi nei campi; ma si
utilizzano anche alberi da frutta appartenenti ad antiche varietà locali. Le
viti, generalmente una o due per ogni albero, vengono posizionate a circa 35-40
cm di distanza dall’albero tutore e vengono fatte arrampicare lungo il tronco
in modo che i tralci vengano sostenuti dalla chioma dell’albero; frequentemente
i tralci più lunghi superano la superficie della chioma e ricadono verso il
basso formando una specie di grosso ombrello naturale con i grappoli d’uva
sospesi. La potatura di queste viti non avviene in modo regolare, cioè ogni
anno, ma solo occasionalmente. Nelle zone montane del Cilento è presente anche
una variante di questo tipico antichissimo sistema di coltivazione, la piantata
a pergolato. Per un corretto impianto di questa consociazione vite-albero si fa
crescere la vite maritata all’albero fino all’altezza delle prime branche; qui
viene allestito un pergolato con pali di legno e filo di ferro e si sistemano i
tralci in modo da ottenere il pergolato al lato del filare di alberi. In questo
caso gli alberi tutori sono quasi sempre piante da frutto e hanno la chioma
libera. In tale tipo di coltivazione la potatura delle viti viene effettuata
ogni anno. La varietà di vite più diffusa in queste coltivazioni è l’Aglianico
utilizzato prettamente per la vinificazione. Tale vitigno, molto probabilmente
di origine greca, solo in questi casi viene coltivato con tecniche di origine
etrusca. Il vitigno presenta grappoli con bacche nere, dà origine a vini di
buona qualità, molto conosciuti e apprezzati fin dal XVI secolo. Secondo alcuni
autori il nome Aglianico deriverebbe da Gaurano, antico e famoso ovino romano;
secondo altri deriverebbe dalle viti introdotte dagli Antichi Greci: coltivato
dai Romani, fu chiamato Ellenico o Ellanico in alcune zone del Cilento e della
Lucania[8].»
[1] Frutto della
visita a Pestum è la Suitte Des Plans, Coupes,
Profils, Elévations géometrales et perspectives de trois Temples antiques, tels
qu’ils existoient en mil sept cent cinquante, dans la Bourgade de Pesto… Ils
ont été mésurés et dessinés par J. G. Soufflot, Architecte du Roy.
&c. en 1750. Et mis au jour par les soins de G. M. Dumont, en 1764, Chez Dumont,
Paris, 1764.
[2] Ilaria Agostini, Il
territorio come un presepio: il paesaggio agrario nei Voyages de Naples tra
Sette e Ottocento, in http://www.unifi.it/ri-vista/04ri/04r_agostini.html
[4] Virgilio, Georgiche,
cit. versi 2 e 220 citato in Franco Cercone, Storia della vite e del vino in
Abruzzo, Casa editrice Rocco Carabba, Lanciano
2008, pag. 33
[5] Publio Ovidio
Nasone, più semplicemente Ovidio (Sulmona, 20 marzo 43 a.C. – Tomi, Mar Nero,
17 – 18 d. C.), Amores, Libro
II, 41. Il testo è suddiviso in tre libri: 49 carmi che
narrano la storia d’amore per una donna chiamata Corinna (personaggio
letterario), secondo lo stile e le convenzioni dell’elegia amorosa: il poeta è
asservito alla domina, soffre per le sue infedeltà, è geloso degli altri
ammiratori e contrappone la vita militare alla vita amorosa.
[6] Grazia
Sommariva, Sub arta vite (Nota esegetica a
Horat. Carm. I
38, 7-8), in http://dspace.unitus.it/bitstream/2067/675/1/Sub%20arta%20vite-traduz.pdf
[7] Raffaele Buono,
Gioacchino Vallariello, La vite maritata in Campania,
in ‘Delpinoa’, n.s. 44: 53-63, 2002 Pubblicazione a cura dell’Orto Botanico di
Napoli